Posso farvi una domanda (sui soldi per i richiedenti asilo)?

il-punto-interrogativo-cuba-la-forma-i-dubbi-isometrici-illustrazione-di-vettore-96814746C’è una domanda che mi preme fare a chi ha fortemente voluto questo governo del cambiamento, a chi in questi giorni è contento.

Tutti lo sanno, la questione migranti e richiedenti asilo è stata dirimente nel risultato elettorale. E qui arriva la mia domanda. Anzi, prima della domanda, un paio di cose che vorrei dire.

Avete presente i famosi 35 euro? Ormai tutti e tutte ci siamo sperticati per dirvi che no, nessun richiedente o rifugiato che sia prende 35 euro al giorno, ne prende 2 o al massimo qualche altro spiccio in più se non sta in una struttura che  somministra i pasti, di modo che abbia i soldi per comprare il cibo. Detto questo, ma voi l’avete capito come vengono usati i restanti 30-28 euro? E questa è la domanda. E se non l’avete capito ecco svelato il mistero.

Parte di quei 30 – 28 euro vengono usati per pagare l’affitto dei locali che servono a dare un tetto sopra la testa a chi è inserito in questi progetti di accoglienza. E sapete che succede? Che trovare una casa in affitto per loro è difficilissimo, la gente non si fida, nonostante sia un progetto ministeriale e tutto debba essere rendicontato al centesimo: la gente non si fida. Quando chiami le agenzie per gli affitti all’improvviso degli appartamenti che tu sai essere appartamenti diventano “locali uso foresteria”… uso foresteria? In un paese di poche migliaia di abitanti? In un appartamento con cucina a vista e camino? E così cosa succede? Che tanta (ma tanta) italianissima gente ci lucra. Dico tanta perché non è tutta, ci sono (e per fortuna) ancora persone oneste. Ma ce ne sono tante (ripeto: italianissime) che ti propongono vere e proprie stamberghe ad affitti esorbitanti. E quando dico stamberghe intendo posti in cui il tecnico del gas che viene a dare un occhio per fare il collaudo ti dice “io, qui, non ci vivrei”. Intendo posti con odori talmente nauseabondi da farti venire la nausea appena entrata. La famosa pacchia, insomma.

Poi ci sono le italianissime bollette e un’altra parte viene spesa per oggetti di uso quotidiano: questo, soprattutto nei piccoli paesi, non fa altro che rimpolpare le casse dei negozianti (anche questi italianissimi) ovvero ferramenta, negozio di utensili, negozi di elettrodomestici.

C’è anche una parte che viene spesa per medicine (comprate nelle italianissime farmacie) e per esami e visite mediche (negli italianissimi ospedali, con pagamento del  ticket).

Infine c’è lo stipendio di chi lavora nell’accoglienza: in un’Italia senza lavoro, con altissimi livelli di disoccupazione, con giovani e laureati che faticano a trovare un posto, davvero vi pare poca cosa il lavoro creato grazie all’accoglienza? La risposta è sì? Allora mi spiegate perché creare posti di lavoro con grandi opere pubbliche spesso inutili o mai completate va bene, mentre crearli in un sistema che ha come obiettivo la gestione e l’integrazione di persone che scappano da guerre, faide, rischio di vita o povertà estrema vi incendia così tanto gli animi?

E un’ultima cosa: quei pochi euro giornalieri che vengono dati direttamente a queste persone (per un periodo di tempo limitato, ricordiamolo) dove credete che vengano spesi? Se acquistano cibo lo acquistano in negozi che pagano le tasse in Italia, se acquistano altro (“santo cielo hanno lo smartphone!!!”) idem.

Insomma praticamente tutti i i soldi spesi per loro non fanno altro che far girar la nostra economia.

Quindi vi rifaccio la domanda: avete capito come vengono spesi quei soldi? Nelle tasche di chi vanno? E se sì, cosa vi indigna tanto?

Spiegatemelo, grazie. Perché io faccio davvero fatica a comprendervi.

Cambiare le narrazioni intorno a gravidanza e maternità

Mi aiutate a diffondere?

Komorebi

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Ascoltando da tempo le problematiche di diverse donne relative al desiderio di avere un bambino e alla difficoltà di riuscirci ci sono due questioni che mi paiono ricorrenti, eche vanno ad aggiungersi alla sofferenza di questo percorso ad ostacoli: si tratta dellasolitudinee il “senso di colpa”, o meglio, la  sensazione di essere difettose, avere qualcosa chenon funziona, essere in qualche modo responsabili della mancata gravidanza o diunagravidanzanon portata a termine o portata a termine in maniera molto diversa da quello che ci si era immaginate. Queste sensazioni vanno ad appesantire una situazione già di per sé complicata e difficile, caricandola di ulteriore giudizio su die senso di solitudine.
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Quellochepensoècheciò dipendadalfattochecèunanarrazionelegataaltemadellagravidanzaedellamaternitàpiuttostofalsa: ciraccontano

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Feste

Sabato ho festeggiato il mio compleanno. Era da molto tempo che non cucinavo per tante persone e da tanto tempo che non cucinavo un granché in generale. Così mi sono data una bella sfogata anche per scaricate lo stress dell’ultimo periodo lavorativo.

Questo il menù:

– polpettine ricotta, zucchine e limone

– insalata di patate con cipolle caramellate

– torta salata vegan con zucca, cipolla, curry, uvetta e noci sbriciolate

– torta salata con broccoli ripassati in olio all’aglio e ricotta

– focaccia ripiena di broccoli e acciughe

– focaccia bianca con patate, zucchine e rosmarino

– pizza margherita

– pizza rossa aglio, acciughe e capperi

– pizza bianca zucca, cipolla e gorgonzola

– pizza rossa con cipolle e grana

– pizza rossa cipolle e zucchine

– pizza bianca con cipolla, gorgonzola, noci e uvetta.

– un’enorme pentola di lenticchie al sugo preparate da mio padre come sostegno 🙂

E per dessert: mascarpone coi frutti di bosco 🙂

Credevo di aver esagerato e invece non è avanzato nulla! È stata una bella festa, con belle persone e altre che pur assenti sono state ugualmente vicine. Ho ricevuto in regalo qucosa che pensavo di rifare da tempo: l’abbonamento all’Internazionale. Tentennavo perché ai tempi in cui settimanalmente la copia mi arrivava in buchetta ero arrivata ad un punto in cui spesso aprivo il numero nuovo senza aver letto nemmeno metà di quello vecchio. Ma questo regalo porta in se un ottimo proposito: quello di essere metodica nella lettura di questa amata e utilissima rivista. Anche perché mi rendo conto che da molto tempo non leggo più con assiduità i giornali. Giusto qualche articolo ogni tanto da Valigia Blu, Left e, appunto dall’Internazionale.

Quali sono i quotidiani di cui vi fidate? Che non vi deludono? Io non ne ho.

Il mio compleanno apre le porte ad un periodo di riflessioni che si susseguono con l’arrivo del Natale e il momento della fine dell’ anno e tutte e tre insieme queste ricorrenze mi portano in manieta diversa a fare il punto su di me, la mia dimensione interiore, le cose fatte, le cose che vorrei fare e che vorrei si realizzassero.

In questi giorni sto leggendo i Diari di Etty Hillesum, di cui ho parlato nel post precedente: una donna forte, di una forza interiore fulgida, prorompente capace di andare oltre all’orrore. Una donna con la ferma volontà di celebrare la vita.

E la parola “celebrazione” è quella che sento mia in questo periodo.

Celebrazioni, riti, raccoglimento: tutti gesti pieni di un senso profondo difficile da spiegare a parole. Ma forse è questo il senso: non è questo per me il momento di spiegare, ma di celebrare la vita. Vivere.

Etty Hillesum

In questi giorni ripenso molto alla figura di Etty Hillesum, la scrittrice olandese di origini ebraiche che ha scritto della sua vita in diari dal 1941 al 1942, in piena guerra e persecuzione nei confronti degli ebrei.

La sua capacità continua di vedere il bello nell’orrore che stava vivendo vorrei assurgerla a faro capace di illuminare la rotta della mia vita. In questi giorni in cui tante piccole cose non stanno andando per il verso giusto, provo a sviluppare la capacità di ridimensionarle, di gestire, di viverle, affrontarle e lasciarle fluire.

« Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare sé stessi” non è proprio una forma di individualismo malaticcio.
Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. »

In questi giorni in cui mi interrogo rispetto a cosa muova la malvagità negli altri, mi ricordo che prima di tutto devo trovare la pace in me stessa.

Immaginare una giovane donna che nel dramma che stava vivendo è stata capace di scrivere “La vita è difficile, ma non è grave” muta il senso e la gravità delle mie piccole grandi ansie di questi giorni.

 

 

Le nozze coi fichi secchi

La mia riflessione di oggi verte su questo: perché le cose che ho scelto di fare, che mi piacciono e che ho trasformato in lavoro invece di farmi star bene capita spesso che mi facciano stare male?

È come se fossi attratta in uno girotondo continuo che mi fa passare dal voler lavorare in determinati ambiti ed essere felice e orgogliosa di essermi costruita molto di questo lavoro con le mie sole mani, alla fatica, l’ansia e lo stress dovuto agli argomenti di cui mi occupo.

Razzismo e sessismo spesso me li sento sbattuti in faccia con gran violenza. Gli sguardi trovi delle persone nei confronti dei rifugiati mi tagliano dentro e bruciano proprio. L’incapacità di certe (tante) persone di comprendere la stortura di un sistema patriarcale mi affatica enormemente, e nonostante i #metoo che affiorano da ogni bacheca e migliaia di donne che si sgolano a raccontare le molestie subite, certe orecchie continuano a restare sorde e se fai notare il problema vieni etichettata come rigida, pesante, cagaca**o. Ormai la fase del dispiacere per l’ etichettatura l’ho superata, non mi importa più e mi sono abituata. Quel che ho da dire è troppo importante per zittirmi solo per non essere offesa da gente che non conosco e di cui non mi importa nulla. Ma a volte l’insieme è faticoso.

Oggi all’ ennesima richiesta da parte di un’amministrazione di fare le nozze coi fichi secchi (“abbiamo pochissimi soldi, ma con quei soldi vorremmo progetti per 110 ragazzi, ci teniamo davvero tanto a collaborare con voi!”) la mia amica e collega mi ha risposto così:

Facciamoci monache. Preghiamo, cantiamo, facciamo l’orto e facciamo sesso di nascosto.

Tutto sommato non mi sembra un’idea così balzana. Le piante non parlano, le ho sempre apprezzate molto per questo.

La tempesta prima della quiete

Venerdì parto per Milano, un Week end all’ insegna della fotografia, arte che amo più di tutte. Mi aspetta un’intera giornata al Festival della fotografia etica di Lodi e una visita alla mostra di Nan Goldin.

Pur adorando viaggiare in treno, farò la pazzia di andarci in macchina. Purtroppo in due conviene, in più tra cambi treno e metro + bus per arrivare a casa della nostra ospite ci avremmo messo più di 4 ore di viaggio invece delle due e mezza stimate in macchina.

Sono felice di immergermi nelle suggestioni che le fotografie riescono a offrirmi, ma so che tornerò un po’ a pezzetti. E oggi, mentre mi destreggio fra vari lavori da fare e aperitivi e cinema da organizzare per la serata, mi chiedo: ma io, in realtà, cosa vorrei veramente fare in questo Week end? E la risposta che si manifesta spontanea ha a che fare con foglie rosse, odore di sottobosco, scoppiettio di legna e naso arrossato.

Ma ci sarà il tempo anche per quello, ne sono certa. È che il mio animo sa che io e lui stiamo entrando a piè pari in un mese densissimo di attività, di lavoro, di stress e ansia da prestazione (che ci sono assai anche quando si ama quel che si fa). E vorrebbe fuggire.

Invece stiamo qui e affrontiamo la fatica necessaria alle cose belle. Per poi riposarsi davanti ad un camino dopo una passeggiata in una faggeta con l’animo in pace e la mente sgombra di pensieri.

Il piacere dopo un dovere che al di là dello stress è assolutamente piacevole è piacevolissimo.

Domeniche

Da un po’ di tempo a questa parte ho preso a fare pranzi domenicali con amiche e amici. È una modalità che amo molto, quella della domenica trascorsa con le amiche, con quella che io chiamo “la famiglia che ho scelto”. Vivo un momento fortunato, in cui posso permettermi il lusso del tempo e scoprire quanto mi concili l’attività lenta e laboriosa dello sgranare melograni per estrarne il succo, oppure quanto riesca a farmi sciogliere il peso sul petto una bella camminata di un’ora nel sole di ottobre. La voglia di cucinare che latitava da tempo sembra riaffacciarsi, ed ecco qui la ricetta improvvisata per l’antipasto di domenica.

Focaccine integrali con cipolla, gorgonzola e uva.

400 gr farina integrale

1 cucchiaio di olio evo

Acqua temperatura ambiente

Sale qb

Lievito

Un pizzico di zucchero

Stemperare lievito con zucchero e in po’ di acqua tiepida. Unire farina, sale e olio e aggiungere il lievito. Aggiungere acqua in quantità sufficiente a lasciare l’impasto molto morbido. Lasciar lievitare due ore.

Trascorse due ore separare piccole porzioni di impasto da stendere come focaccine, farcire la parte superiore con cipolla bianca tagliata sottile (ma non troppo), gorgonzola e acini d’uva tagliati a metà (e io li privo anche dei semi). Infornare a forno ben caldo a circa 220 gradi per 15 minuti, trascorsi i quali abbassare la temperatura a 190-200 e proseguire per altri 10 minuti. Quando la parte di sotto è colorata le focaccine sono pronte (o almeno dovrebbero!).

Buon appetito! Cosa vi piace fare di domenica? E cosa invece non volete assolutamente fare? Io ad esempio detesto andare a fare spesa la domenica, tendo a non farlo mai e quando mi tocca farlo mi viene un po’ di malumore sia perché sono contraria umanamente all’apertura domenicale dei supermercati, sia perché mi piace l’idea antiquata e assolutamente sensata che ci sia un giorno su sette di celebrazione, di quiete, di bellezza, in cui ci si dedica a ciò che si vuole fare. È vero, imparare a celebrare ogni giorno è la cosa migliore, ma è altrettanto vero che nella frenesia della vita e volte servono proprio dei momenti condivisi da tutti i cui ci si riconosce oziosi.

Biennale 2017

Entro in una stanza, è il padiglione dell’Inghilterra. Ci sono opere molto grandi, che arrivano fino al soffitto.

Di fronte all’ arte contemporanea il commento più quotato pare essere “Questo potevo farlo anch’io”. Chissà, forse è vero, fatto sta che potevi e non l’hai fatto.

Qual è il senso con queste opere? Di questi pannelli?

Il senso per me era quello dell’ opera gigante che occupa la stanza e tu visitatore ci entri in punta di piedi, ti senti un po’ piccolo, quasi fuori posto. Sei scomodo nella stanza, un po’ sulle tue e non sai bene come relazionarti con quello che vedi.

In questa stanza giravo intorno al pannello e arrivata dal secondo lato ecco i due massi pendenti dal soffitto che mi impediscono di passare. L’istinto è quello di uscire, ma poi ci ripenso e penso che io VOGLIO girare intorno al pannello, non perché sia bello, ma perché vogli girare intorno a quest’ opera. Così mi riaffaccio, mi avvicino ai massi e mi accorgo che non è impossibile passare, è solo più difficile, comporta che trovi il modo di farlo e il modo è abbassarsi, assumere una posizione che non avrei pensato, passare sotto al masso. È scomodo ma si può, è scomodo ma lo faccio, perché quella stanza e quella situazione mette al centro la mia volontà.

Mi metto a chinino e passo di là, finisco il giro del pannello che mi ero riproposta di fare.

La biennale mi ha dato più che altro l’idea di un’accozzaglia di cose. Ma questa esperienza mi è rimasta impressa.

Questa per me è arte.

Buonanotte

In banca.

– Salve, devo pagare questo bollettino.

– Ha degli spicci?

– Prego?

– Ha degli spicci? Altrimenti non riesco a darle il resto. Non ho moneta.

– Scusi, ma questa è una banca, se non avete i soldi voi…

– Eh però gli spicci non li abbiamo, quindi se non li ha lei non riesco a darle il resto.

Tiro fuori gli unici spicci che ho, due monete da cinquanta centesimi, che mi pare non spostino di una virgola la situazione.

– Ah benissimo! Eh, però mi scusi ma la cifra che mi dice il monitor inserendo i dati non corrisponde al suo bollettino. Qui è più alta, non posso farle pagare di meno.

– Prego? Quella cifra è sempre stata identica, il bollettino è inviato dalla segreteria dell’Università. La cifra è quella, gliel’assicuro.

– Eh signora ma qui a monitor dice un importo diverso.

In quel momento inizia a palesarsi dentro di me una voce rispetto a cosa potesse essere la differenza di importo, ma allo stesso tempo un’altra vocina diceva “ennò dai, non può essere a ‘sti livelli”. La seconda vocina sbagliava.

– Ah no scusi, ho sbagliato io: la cifra che leggo a monitor è il resto che devo darle!

Buonanotte. Sempre che riusciate a dormire sonni tranquilli pensando a questa che lavora allo sportello di una banca e a vostro cugino ingegnere aerospaziale che sta facendo il turno al call center. In Romania.

Help!

Care e cari,

ma capita anche a voi utenti di wordpress che, pur essendo già loggati, quando volete commentare l’articolo di qualcuno sempre su wordpress vi chieda di nuovo di fare l’accesso e poi non vi pubblichi ugualmente il commento?

Se sì come avete risolto? Qual è il problema?

Sta diventando un po’ faticoso lasciarvi commenti ai vostri bei post! 🙂

Grazie per le info!