Lavoro, precarietà, libertà e felicità

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Alcuni ingredienti della mia felicità: una spiaggia libera, quattro bastoni portati dal mare, un telo rosso a farci da tetto, un libro, un incenso e un’amorevole compagnia.

Un paio di giorni fa leggevo lo sfogo di Sara sulla fatica di doversi dedicare quotidianamente ad un lavoro che non piace circondati da persone che ci fanno stare male, sul desiderio di invertire la rotta, mollare tutto e la paura di non farcela. Nel suo articolo si chiedeva se la vita le stesse suggerendo di prendere coraggio e mandare tutto a quel paese e se fosse il momento di mettere se stessa e i suoi bisogni al primo posto. Questa la mia risposta:

Cara Sara, io credo che le risposte tu te le sia già date in questo articolo. Farsi avvelenare quotidianamente è un male e la soluzione non credo sia farsi esami di coscienza per vivere meglio l’avvelenamento, ma smettere di avvelenarsi. So bene che non è facile, ne abbiamo parlato tanto anche privatamente, ma la vita è una, noi siamo uniche e sprecare il tempo a fare lavori che ci imbruttiscono non è ciò per cui siamo fatte. Serve coraggio, che non è assenza di paura, ma il riconoscimento della paura, l’accettazione di questa paura e la capacità di andare oltre. Serve immaginazione e fantasia, per pensarsi altro, per pensarsi altrove, per costruire scenari impensabili. Un abbraccio

Stamattina S., amica che lavora nella Pubblica Amministrazione come precaria, si sfoga su una chat di Wapp condivisa su quanto sia stanca di vedere intorno a sé canali preferenziali per richieste ferie o permessi in cui non è inserita in quanto precaria e senza conoscenze e di sentirsi costantemente a disagio e fuori luogo e dover ingoiare tutto e comportarsi come un cane obbediente e leccaculo nella speranza di un’assunzione. Nel risponderle le dicevo che certamente la precarietà può far tendere al servilismo, ma che poi l’asticella del grado di sopportazione ognuno la pone per sé e lei ha risposto lapidaria che “La precarietà è servilismo, non si può fare diversamente”.

No. Io non penso affatto così e sono fermamente convinta che dirsi che “non si può fare diversamente” sia il primo e più forte laccio delle nostre catene. Nessuno qui vuole mettere in discussione il fatto di vivere in un periodo economico buio, ingiusto, in cui tutte le sicurezze della generazione dei nostri genitori ora non esistono più. Ma il fatto è che quelle sicurezze erano in realtà un sogno collettivo durato decenni da un popolo che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità (avete presente il debito pubblico? Ecco…).

Posta questa base però convincersi che non ci sia scelta e che siamo tutti costretti ad essere servili non fa altro che farci permanere all’interno di situazioni che non ci piacciono perché ci convinciamo che si possa fare solo così. L’amica in questione parlava del fatto di essere soli, della perdita di potere dei sindacati e dell’impossibilità di vedere tutelati i propri diritti se lasciati soli a noi stessi. Ma a questa affermazione a me viene da chiedere: e tu quante volte hai scioperato? O sei andata ad una manifestazione? Hai partecipato a un collettivo, a una raccolta firme di tua volontà? I sindacati hanno funzionato quando c’era gente unita e disposta a scioperare per giorni per i propri diritti, al giorno d’oggi non trovi nemmeno quelli che scioperano qualche ora… Spesso noto molto scollamento tra ciò che ci si aspetta da una qualche entità superiore (Stato, società) e ciò che si è disposti a fare come individui appartenenti ad una collettività.

Ma oltre a questo il mio ragionamento di fondo è un altro: in un mondo del lavoro in cui anche se hai laurea, master, dottorato, fluent english, esperienza di quattro anni nella stessa mansione COMUNQUE non vai bene e ti trovi il più delle volte a non fare lavori per cui hai studiato, l’approccio deve cambiare. E deve cambiare prima di tutto dentro di noi. Dobbiamo zittire le aspettative inculcate dai genitori, dalla scuola, dai parenti, da noi stessi, dalla società per cui se vai a lavorare in un ufficio davanti al PC sei ok, se invece fai la fioraia sei sprecata. Ora come non mai dovremmo cercare di essere massimamente connessi con ciò che riteniamo importante nella nostra vita, con ciò che ci piace fare e che ci fa stare bene. Vi riporto tre esempi:

  • ESEMPIO 1: MIA SORELLA

La mia cara sorellina ha lavorato tutta l’estate scorsa ad una baracchina dei gelati per mettere da parte i soldi per l’Overseas che l’avrebbe portata un anno a studiare a Chicago. In questa baracchina si è trovata benissimo: grande amicizia con la proprietaria, super integrata con i clienti, tanto che quando è partita per gli States le mandavano messaggi e a volte la chiamavano tutti insieme su skype dai tavoli della baracchina. Ora è tornata in Italia, negli States è stata un mostro di bravura e ha preso il massimo dei voti in tutti gli esami, ma ugualmente va a fare delle serate in baracchina perchè lavorare lì le piace, le ore scorrono veloci e torna a casa serena. E’ il lavoro che si augura di fare tutta la vita? Direi di no, ma se non dovesse riuscire a fare ciò che vuole fare ha capito che è più importante lavorare serenamente che essere costretti  a fare il lavoro per cui si è studiato circondati da carogne, precarietà e frustrazione.

  • ESEMPIO 2: SORELLA DELLA MIA AMICA G.

Lavorava in una grande catena di bigiotteria: turni massacranti, a volte impossibilitata perfino ad andare in bagno, la sua vita era costellata di crisi di panico fino a quando ha detto basta. Si è licenziata ed è andata a raccogliere le pere. Estate serena come non succedeva da tempo e nel frattempo si era iscritta all’accademia delle belle arti. Adesso produce artigianalmente collane e prodotti vari, collabora con uno studio e da poco tempo ha aperto un suo studio in città con altre ragazze artigiane come lei. E’ piena di soldi? No. E’ faticoso? Sì. E’ serena? Sì, e si vede.

  • ESEMPIO 3: AMICA DI AMICO C.

Lavorava in una azienda di formazione, faceva progetti vari, nelle scuole e con gli adulti. Orari assurdi, gestione caotica, paga misera: dopo anni ha deciso che non ne valeva più la pensa. Si è licenziata e per puro caso ha fatto un periodo di prova da una fioraia. Ha scoperto che era un lavoro che le piaceva moltissimo e dopo qualche anno la titolare è andata in pensione e le ha chiesto se voleva rilevare l’attività. Ora vende fiori in centro a Bologna.

Tornando alla discussione su Wapp l’amica V. ha detto che lei si trovava in una via di mezzo tra il pessimismo di S. e il mio idealismo, dicendo che a differenza di S. pensava che le possibilità ci fossero, ma a differenza mia credeva fosse necessario scendere a compromessi. 

Ora. Sappiamo tutti che Wapp non è lo spazio ideale per queste conversazioni, però. Mi fa effetto che qualcuno giudichi idealista questo mio pensiero e mi fa effetto che qualcuno pensi che io non scenda a compromessi. Perché per me non è questione di seguire “nobili ideali”, ma di essere connessa con quello che sento. E aver lavorato per due anni in un’azienda che non c’entrava nulla non solo con ciò che avevo studiato, ma nemmeno con ciò che vagamente mi interessava cos’è, se non un compromesso tra ciò che si vorrebbe fare e il voler portare a casa la pagnotta? E ancora: lavorare per anni in un doposcuola in cui la gestione era talmente sbagliata, i genitori così incapaci e i bambini così problematici da aver passato un anno in cui mi ammalavo a tutte le feste comandate e in tutti i giorni di vacanza? Solo io ci leggo dei segnali? No, non mi sono licenziata per idealismo, a meno che qualcuno non creda che il perseguire una vita serena e sana sia addirittura un ideale.

Certo che i compromessi esistono, ma ci sono compromessi e compromessi. Compromessi che ci logorano e altri che tutto sommato ci permettono di trovare un buon equilibrio di vita. Dovremmo solo smettere di credere che passare giornate a studiare per concorsi che se vinti ti permetterebbero di avere un contratto a tempo indeterminato in un ambito in cui il lavoro che  fai ti annoia mortalmente e la gente che hai intorno non ti piace sia meglio che vendere fiori. O servire caffè.

Quanto ci serve per essere felici? E soprattutto: COSA? Siamo sicuri che ciò che diciamo di desiderare lo desideriamo davvero o ce l’hanno fatto desiderare?

 

6 pensieri riguardo “Lavoro, precarietà, libertà e felicità

  1. Si, sono convinta come te che le peggiori barriere ce le mettiamo da soli, con il nostro dialogo interno e le convinzioni che ci hanno inculcato e anche quelle che ci siamo inculcati da soli, elaborando la nostra esperienza.

    Diversamente da te però credo che ormai i sindacati da difensori dei diritti dei lavoratori siano diventati purtroppo un’ulteriore strumento in mano ai soliti noti…basta vedere che per leggi simili (Job act) qui in italia non si è mosso nessuno mentre in Francia hanno bloccato letteralmente il paese per più di 10 giorni, segno che qui in Italia purtroppo i sindacati non sono più organizzazioni indipendenti che tutelano i lavoratori ma culo e camicia con i poteri forti. In realtà io sono sempre stata più una fan delle corporazioni dei lavoratori piuttosto che i sindacati politicizzati perchè se i diritti dei lavoratori sono comunque un fatto politico, in quanto fatto politico non devono essere comunque confusi con l’ideologia politica, che è un’altra cosa.

    Sono iper d’accordo con te che se la rivoluzione non parte da noi, se noi come singoli cittadini non ci mettiamo in testa che abbiamo un dovere civico di contribuiire al benessere della collettività, e quindi anche nostro, non si va da nessuna parte e non si tratta, ben inteso solo di andare a votare. Mi piacerebbe insomma che gli slanci di solidarietà non ci siano solo in caso di inondazioni e disastri ma sempre…

    Un esempio su tutti è quello che ha fatto la sorella della tua amica G. partire da noi e creare un network di creativi, artigiani…ecco cosa intendo io con rivoluzione che parte dal basso, una rivoluzione che porti a sovvertire il clima inumano degli odierni posti di lavoro (che fanno una pippa all’alienazione di accezione marxiana perchè oggi giorno l’alienazione non è tanto il lavoro ripetitivo ma la sospensione della solidarietà umana in cambio di una competizione feroce e bestiale che non guarda in faccia nessuno) per riappropriarsi di se, delle proprie naturali inclinazioni ma soprattutto del concetto di comunità…e di un clima lavorativo collaborativo e sereno. come dovrebbe essere, sempre.

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    1. Cara Von, non credo che i sindacati oggi siano i difensori dei diritti dei lavoratori, ma nel chiedersi come mai credo dovremmo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che la forza di un sindacato la fa la partecipazione e l’adesione degli iscritti non tanto a suon di tesseramenti, quando di capacità di risposta a fronte di iniziative. Nella scuola in cui lavora mia madre a fronte delle riforme nessuna tranne lei e altre due hanno scioperato, salvo poi all’approvazione della “Buona scuola” lamentarsi tutte e proporre di andare ad occupare il provveditorato… sì, certo, e quando c’era la possibilità di scioperare dove eravate? Mi sembra abbastanza logico che se uno sciopero di un’ora non muove nulla, sia necessario mobilitarsi di più e per più tempo per avere voce, ma nessuno è più disposto a farlo. Deleghiamo pure ai sindacati tutto, che certo sono cambiati molto e come tutte le grandi organizzazioni non credo siano assolutamente immuni da personalismi, corruzione, etc, ma poi non lamentimoci quando noi per primi non ci mettiamo in moto. Citi la Francia, ma tu ti immagini la risposta in Italia se si proponesse di bloccare tutto per dieci giorni? Chi è disposto a farlo e assumersi le responsabilità delle proprie azioni?

      Va bene vedere il marcio che c’è, va un po’ meno bene sentirsi continuamente deresponsabilizzati e non riconoscere che quel marcio abbiamo contribuito a crearlo anche noi, fosse anche solo con la nostra indifferenza.

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      1. il punto è che sono i nostri sindacati stessi e in generale l’andazzo in italia che ha portato ad una graduale deresponsabilizzazione dell’individuo e certo è responsabilità anche nostra. Avrei molto da dire e sarebbe molto lungo, circa il come, secondo me, si è attuata gradualmente la situazione odierna, ma te la risparmio. E’ inutile piangere sul latte versato, occorre osservare lo status quo e trovare delle soluzioni sulle nostre risorse odierne. Risorse che ci vedono tutti protagonisti.

        Delegare ad altri la responsabilità di decidere sulla nostra vita purtroppo è un’esercizio che ci ha indebolito moltissimo, soprattutto ha indebolito la percezione e la consapevolezza del nostro potere e non è una cosa che si è sviluppata negli ultimi anni ma si tratta di un processo plurigenerazionale e di cui noi abbiamo certamente responsabilità ma non esageriamo cercando di addossarci quella dei nostri genitori…o quella dei governi che hanno promesso senza mantenere. La responsabilità infatti parte da ciò che è in nostro potere fare, da quello che avremmo dovuto e potuto fare e non abbiamo fatto preferendo la via più facile o fidandoci del suggerimenti e delle promesse altrui che sono state inesorabilmente tradite. Sospetto che però moltissimi non hanno mai avuto la consapevolezza del loro potere, piuttosto si tratta di impotenza appresa.

        Il punto sta secondo me nell’ideologia contrapposta ad uno stato dell’essere ovvero essere norma per se stessi ed esempio per gli altri. Cosa non facile ma possibile e chi ci riesce (e soprattutto decide di farlo) fa la differenza. Incarnare i propri ideali e principii infatti è una cosa ben diversa rispetto al modo che abbiamo oggigiorno di esprimere le nostre preferenze politiche che mi sembra sia stato mutuato e vada di paripasso con il modo in cui molti si definiscono cristiani e cattolici: faccio quello che mi pare e poi tanto domenica mi confesso, dico 10 avemarie e posso continuare a fare quello che mi pare. Ma soprattutto anche nel pensiero e nelle idee pochi hanno il coraggio di assumersi la responsabilità di averne di proprie.

        Insomma, mi sembra che la precarietà delle nostre esistenze parte in primis dal fatto che precaria è la nostra capacità di pensiero, e questo è in contrapposizione anche con la libertà. La libertà infatti va di paripasso con la nostra capacità di assumerci le responsabilità di fette sempre più ampie della nostra esistenza. Delegare al prossimo: stato, istituzioni e sindacati, Dio va proprio nella direzione opposta… anche perchè se si vuole delegare bene e in maniera responsabile bisogna essere in grado di vigilare sull’operato di chi deleghiamo e all’occorrenza rimuoverlo…

        La cosa positiva è che ora siamo soli, soli a smazzarci lo status quo e vedere come uscirne e io trovo che questa sia un’opportunità.

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  2. Mammamia, che bel pensiero mi lasci per il fine settimana!
    È un po’ che sto ragionando sulle stesse tue domande e come già dici tu, la risposta la so, altroché se la so. Altroché.
    E per ora sono giunta ad una sola conclusione: bisogna trovare il Coraggio delle proprie scelte. Non è facile, c’è da mettere in conto fatica, porte in faccia, giorni pesanti, ma è possibile. Lo dimostrano i tuoi esempi e lo dimostrano le tante persone che – in un modo o nell’altro – hanno trovato la loro strada. Che magari non è neanche quella definitiva ma intanto porta da qualche parte e non ti aliena dalla vita vera.
    Credo da sempre che nel nostro mondo, in quello di questi tempi, il “lavoro” vada inventato di sana pianta, che non ci sia da aspettarsi una qualche sicurezza se non quella che ci si fa da soli credendo in se stessi e nelle proprie capacità. Crederci. Questo è l’unico segreto. I compromessi magari ci vogliono, ma sì, come dici tu di compromessi ce ne sono di tanti tipi, e avere il coraggio delle proprie scelte significa trovare il compromesso più giusto, più adatto a noi, per continuare a vivere serenamente la propria Vita e non farci prendere dal gorgo.
    Io da parte mia sto raccogliendo tutto il Coraggio possibile, disperso in giro, per fare un passo che per alcuni sarà assurdo, ma che per me è l’unico possibile a questo punto, dopo aver riconosciuto che non serve poi tanto per essere felici, nella Vita. È il COSA che deve essere quello giusto.

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    1. Sono perfettamente d’accordo con te quando dici che il lavoro ora vada inventato. Certo non è facile… ma perché? E’ forse facile passare le giornate con l’ulcera per sopportare un lavoro che fa schifo? La chiave è anche quella: riconoscere che non serve tanto per essere felici, o meglio, che ciò che serve davvero difficilmente si può comprare a suon di leasing o prestiti o mutui.
      Dai Silvia, in bocca al lupo per la scelta che vuoi compiere! Viviamo in un mondo così assurdo che spesso le scelte più sensate venogno etichettate come “assurde” dagli altri. Ma l’esperienza mi ha insegnato che nella “assurdità” c’è spesso molta verità, forza e tanta più saggezza di quanto gli altri credano.

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